Resoconti e commenti 21 giugno 2025: testi completi (o ampiamente riportati)

Il MANIFESTO DOMENICA 22 GIUGNO 2025
PRIMA PAGINA
DUE GRANDI CORTEI CONTRO IL RIARMO E IL REGIME DI GUERRA - A Roma sfilano centomila pacifisti
Primo giorno d'estate è anche il giorno dell'invasione pacifista della capitale. A decine di migliaia si muovono da Porta San Paolo al Colosseo con Arci, Cgil, sindacati di base, collettivi e organizzazioni sociali. Ci sono presenze, a titolo individuale, di eletti nel Partito democratico e i leader di Avs e Movimento 5 Stelle. «Diciamo no al riarmo, alla guerra, al genocidio e all'autoritarismo» dicono i manifestanti che tracciano un nesso tra le politiche belliche e quelle di austerità e repressione del dissenso. «Non ci faremo intimidire - dicono - Abbiamo riconosciuto da subito la minaccia al dissenso come parte della torsione autoritaria della guerra». In contemporanea, nella capitale, anche la manifestazione separata ma molto partecipata convocata da Usb e Potere al popolo. L'ennesima prova, dopo i cortei delle settimane scorse, dell'esistenza di un'opposizione sociale alle destre e al regime di guerra.
GAMBIRASI E SANTORO, PAGINE 6 E 7
Pd, M5S e Avs contro l'accordo Italia-Israele - Uniti sulla mozione, divisi in corteo
ANDREA CARUGATI
Una mozione provvidenziale e unitaria, per chiedere al governo di stracciare il memorandum con Israele. Pd, M5S e Avs riappaiono insieme contro Netanyahu nel giorno in cui sono divisi nella piazza sul riarmo. Conte, Fratoianni e Bonelli a Roma, Schlein in Olanda.
La leader Pd era ospite di Frans Timmermans al congresso dei rossoverdi, solo quattro sparuti parlamentari si sono uniti al corteo «no riarmo», partito senza una delegazione ufficiale dem. L'annuncio della mozione arriva a mezzogiorno, due ore prima dell'inizio della manifestazione. Chiede al governo di revocare il memorandum di cooperazione militare con Israele, che è in vigore dal 2005 (relatore della legge fu l'allora deputato Sergio Mattarella), e di sospendere tutti gli accordi attuativi del medesimo e qualsiasi altra forma di cooperazione militare.
L'avviso di revoca deve partire sei mesi prima della scadenza e del tacito rinnovo, che scatterà ad aprile 2026, e dunque i tempi ci sono se il governo (ma non è così) volesse procedere a stracciare l'accordo. Netti i toni del documento: «Non lasceremo che l'Italia venga macchiata dalla pavidità di Meloni, questo massacro non continuerà in nostro nome».
I tempi in questa vicenda contano. L'annuncio di una mozione parlamentare di sabato mattina è inusuale, ed è un segnale politico che venga fatto (con l'intesa dei tre partiti) due ore prima di una manifestazione che li vede divisi. Serve a coprire l'assenza dei dem e a confermare che l'asse giallorosso in politica estera è ancora vivo.
Non a caso Conte non affonda il colpo sull'assenza Pd: «Non entro nel campo altrui, sottolineo anche i passi congiunti e positivamente compiuti insieme». Dietro le quinte si apprende che, con questa mossa, Conte e Fratoianni hanno risposto alla cortesia di Schlein che il 7 giugno disse no alle richieste di Calenda e Renzi di annacquare la piattaforma della piazza per Gaza. Un no che spinse i due centristi a farsi una manifestazione da soli in un teatro di Milano.
Per Schlein è un bel favore, quello di ieri, anche se dal M5S spiegano che la tempistica dell'annuncio è casuale: la mozione è stata chiusa dagli sherpa venerdì sera. Le consente di mostrare un profilo di radicalità contro Netanyahu nel giorno in cui il Pd ha disertato la piazza che diceva no ai piani di riarmo, della Nato e dell'Ue, e allargava la piattaforma del 7 giugno: non solo per Gaza ma contro la logica della guerra che permea l'Occidente, tout court.
La benedizione alla piazza arrivata nel pomeriggio dal segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin («È bene che ci sia una mobilitazione per evitare la corsa al riarmo») suona come una beffa per i dem, anche quelli, come Schlein, che non erano in disaccordo con le parole d'ordine ma temevano che alcune frange pro pal più radicali potessero portare la piazza troppo lontano dal loro sentire, magari bruciando bandiere di Israele. Forse confondendo le due manifestazioni di ieri, quella di Potere al popolo e giovani palestinesi (più radicale) a Piazza Vittorio e quella indetta da 400 associazioni, tra cui le Acli e altre sigle delpacifismo cattolico. Timori infondati, quelli del Pd, ma ancora più stonate, dopo le frasi di Parolin, appaiono le frasi liquidatorie degli esponenti della destra dem (molti sono cattolici) che avevano definito il corteo di ieri «sbagliato, strumentale e mistificatorio (Filippo Sensi) o sospettabile di «minare la nostra credibilità» (Pina Picierno).
Ancora una volta tocca alla Chiesa dire qualcosa più di sinistra del Pd, dalla guerra alla povertà, ormai non è più una notizia. Ma tant'è. E del resto, oltre alle presenze delle frange pro pal più radicali, a preoccupare Schlein c'era e c'è anche il rapporto con l'Ue e con la Nato, due partner inevitabili per chi si sta preparando ad andare a palazzo Chigi. Nel Pd pensano che il piano di riarmo targato von der Leyen sia ormai carta straccia: nessuno dei paesi principali, tranne la Germania, ha deciso di fare debito per nuove armi e dunque degli 800 miliardi previsti sulla carta resta ben poco.
C'è poi il delicato capitolo del 5% di pil da destinare alle spese militari che sarà deciso la prossima settimana a L'Aia nel vertice Nato. Una previsione di spesa definita «impensabile» anche dal ministro della Difesa Crosetto. Il Pd, che finora, è stato prudente, ha deciso di dire no, sulle orme del premier spagnolo Pedro Sanchez. «È diritto legittimo di ogni governo decidere se è disposto o meno a fare questi sacrifici, noi abbiamo scelto di non farlo», ha scritto Sanchez al segretario generale della Nato Rutte. Il Pd inserirà un paragrafo su questo punto nella risoluzione che presenterà in Parlamento domani, in occasione delle comunicazioni di Meloni in vista del Consiglio Ue del 27 giugno. Un'altra mossa che la sinistra del partito giudica fondamentale, come il no al memorandum Italia-Israele. «Un passo alla volta stiamo spostando la linea del Pd», spiegano. Ma sul no al riarmo, prima o poi, Schlein dovrà dire parole ed esprimere voti chiari, non potrà più limitarsi alle astensioni e alle frasi di circostanza. Anche a costo di perdere pezzi della destra Pd.
C'era una voglia. Centomila contro il riarmo
Un fiume di gente a Roma, da Porta San Paolo al Colosseo: «Sappiamo che le bombe seminano morte al fronte e impoveriscono tutti» -
GIULIANO SANTORO
Il giorno più lungo dell'anno è quello del ritorno dei pacifisti. Diverse culture, tanti linguaggi, provenienze differenti si intrecciano, da ogni parte d'Italia e dalle storie disparate. L'insolita, recente, abitudine di far partire i cortei esattamente all'ora della convocazione viene ribadita quando si capisce che c'è troppa gente, non si può restare fermi nella calca sotto il sole cocente di Porta San Paolo. Dunque, alle 14 in punto il fiume di gente si muove lungo l'Aventino verso il Colosseo. È già in questo momento che i promotori capiscono che possono parlare di almeno centomila persone in piazza.
LE NOTIZIE CHE ARRIVANO dal mondo fuori, dalla Palestina e dagli altri fronti della guerra a pezzi che spaventa il mondo, da ormai troppo tempo seminano il terrore. «Forse qui morire è l'unico modo di rimanere umani» dicono dal camion citando le tragiche testimonianze che arrivano da Gaza. La reazione delle migliaia di persone che compongono il corteo, per contrasto e tigna diremmo, è di gioia. La felicità di ritrovarsi, nonostante tutto, e di poter lanciare una voce di umanità che non sia soltanto la morte. E che provi a coltivare la speranza. Michela Paschetto, infermiera di Emergency di ritorno da Gaza racconta al manifesto la situazione difficile: «Abbiamo due cliniche che si occupano di medicina di base, pediatria, salute materna, stabilizzazione dei pazienti più gravi. La situazione sta peggiorando. Aumentano i pazienti malnutriti, soprattutto i bambini. Comincia a vedersi anche tra le persone adulte e anche tra le donne incinte, perché il cibo veramente scarseggia».
C'È IL SINDACATO, che traccia senza troppi giri di parole il nesso tra regime di guerra e condizioni di lavoro. «Lì si muore e qui ci si impoverisce, per questo dobbiamo ribellarci» sintetizza Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil. Lungo il corteo si riconosce il volto di Michele De Palma, segretario Fiom ancora impegnato dalla riduzione a questione di ordine pubblico dello sciopero dei metalmeccanici per il contratto del giorno precedente. «Non ci faremo intimidire, abbiamo riconosciuto da subito la minaccia al dissenso come parte della torsione autoritaria della guerra», dicono i suoi. Ci sono i Cobas e le Clap, i collettivi studenteschi e le reti pacifiste, mentre Usb con Potere al popolo si muove da piazza Vittorio fino ai Fori imperiali, anche sulla scorta dello sciopero generale del sindacato di base. Chi prova a ricostruire un filo, tra sindacalismo e lotta alla guerra, oltre le sigle, le trappole geopolitiche e le frontiere nazionali, sono quelli della rete Reset: distribuiscono un volantone di quattro pagine che serve a lanciare l'idea di uno sciopero europeo e sociale contro la guerra. . «È sempre più urgente aprire uno spazio di organizzazione in grado di connettere chi oggi lotta contro il razzismo, il sessismo, la devastazione ambientale, la precarietà – affermano - Uno spazio in grado di fare del piano transnazionale ed europeo un piano di contesa e di scontro che, al rifiuto dell'Europa del riarmo, non contrapponga la dimensione nazionale coi suoi confini, ma un piano di convergenza delle lotte tra chi si sta opponendo alla guerra a livello europeo e transnazionale».
GIANFRANCO PAGLIARULO fa una prima valutazione, in diretta: «È una bella piazza, unita – commenta il presidente Anpi - Adesso dobbiamo renderla ancora più unita. Nessuno dimentichi Gaza, oggi oscurata dai media e pensiamo al futuro: una grande conferenza di pace per il Medio oriente che faccia nascere finalmente la Stato di Palestina, nella sicurezza dei palestinesi e degli israeliani».
Walter Massa, presidente nazionale dell'Arci, ha creduto fin dall'inizio in questa mobilitazione e all'idea che si dovesse muovere insieme alle lotte nel reso dei paesi dell'Unione europea: «Rifiutiamo l'idea che per dirimere i conflitti si debba passare per le armi». Poi manda un messaggio a chi, nel centrosinistra, ha votato per il Piano Von der Leyen: «Il riarmo, sostenuto anche da settori di opposizione non rappresenta alcuna forma diautodeterminazione - afferma Massa - È una trappola: non vogliono costruire l'Europa ma tornare all'Europa delle nazioni, come nei momenti più bui della storia. Intanto aumenta la repressione contro il dissenso e le dichiarazioni sulle priorità dell'ordine. Per fermare tutto questo abbiamo bisogno di un fronte largo, conflittuale e convergente».
ECCO, LE OPPOSIZIONI parlamentari che dicono? Dal Partito democratico, come previsto, compaiono presenze singole. Ci sono i parlamentari europei eletti nelle liste dem Cecilia Strada e Marco Tarquinio, lo schleiniano Sandro Ruotolo coi deputati Arturo Scotto e Paolo Ciani di Demos. Scotto sottolinea: «Siamo qui per interloquire anche con chi ha posizioni diverse». Il che dimostra «quanti passi avanti ha fatto il Pd di Schlein». Conte sbuca verso le 15 dalla Piramide Cestia. In altri tempi ci si sarebbe aspettati che avrebbe approfittato della finestra del corteo per fare le sue dichiarazioni alla stampa per poi abbandonare la piazza, invece il leader M5S si fa tutto il corteo in coda, insieme alla delegazione dei suoi, scortato tra gli altri da Riccardo Ricciardi e Francesco Silvestri. Dietro di lui, cosa inedita, uno spezzone unitario composto dalle organizzazioni giovanili dei partiti a sinistra del Pd: il Network giovani dei 5 Stelle, i giovani comunisti di Rifondazione, quelli di Sinistra italiana e dei verdi. «C'è un popolo, la stragrande maggioranza, che dice che questa corsa al riarmo è folle, ed è folle contribuire alla escalation militare» dice Conte che evita di polemizzare con il Pd. «La guerra porta con sé l'economia di guerra - aggiunge Nicola Fratoianni - E insieme alla vita di chi sta sotto le bombe cancella la possibilità di costruire più diritti sociali ambientali e di libertà. Per questo diciamo no al riarmo e alla guerra, costruendo la massima convergenza e unità».
Sul secondo corteo "DISARMIAMOLI!" (PAP, USB, Giovani palestinesi...) da Piazza Vittorio fino ai fori imperiali
In 30mila al corteo di Potere al popolo e Usb In 30mila hanno partecipato alla manifestazione contro la guerra e il riarmo indetta da Potere al popolo, Usb, Movimento studenti palestinesi e altre 80 sigle ieri a Roma. Il corteo si è mosso da piazza Vittorio fino ai Fori Imperiali, aperto da uno striscione con scritto «Disarmiamoli!». Dietro gli striscioni di Potere al popolo «Non un euro per la loro guerra» e degli studenti palestinesi «Israele terrorista. Sionismo pericolo per il mondo». Insieme a loro anche le organizzazioni studentesche Osa e Cambiare rotta, e il collettivo Calp dei lavoratori del porto di Genova che nelle scorse settimane si era rifiutato di caricare su una nave cargo diretta in Israele tre container carichi di armi. «Siamo nella piazza che non si gira dall'altra parte e che chiama Israele per quello che è: uno Stato coloniale, genocida e terrorista» hanno scandito gli studenti palestinesi. «Oggi ci siamo mossi in decine di migliaia e abbiamo dimostrato che esiste un'alternativa al riarmo. Abbiamo dato un segnale al governo Meloni: se firma il riarmo sarà un autunno caldissimo» hanno detto da Potere al popolo. Nel corso del corteo alcuni militanti hanno dato fuoco a una foto di Trump e alle bandiere della Nato e di Israele. All'arrivo ai Fori imperiali alla testa del corteo è stato bruciato un carroarmato di cartone, mentre una bandiera della Palestina è stata issata sulla statua dell'imperatore Augusto.
Il FATTO QUOTIDIANO DOMENICA 22 GIUGNO 2025
PRIMA PAGINA
DUE GRANDI CORTEI CONTRO IL RIARMO E IL REGIME DI GUERRA - A Roma sfilano centomila pacifisti
Editoriale di Marco Travaglio: AGORAFOBIA
Il successo delle due manifestazioni a Roma contro il riarmo, così come della protesta operaia a Bologna, è dimostrato non solo dalla partecipazione della gente. Ma anche e soprattutto dall'agorafobia del sistema mediatico e del governo, che fanno di tutto per svuotare le piazze. Il dl Sicurezza ha svelato tutta la sua follia alla prima prova su strada, anzi su tangenziale: quella occupata pacificamente per 1,5 km l'altro ieri dai metalmeccanici per il nuovo contratto. La zelante Questura ha comunicato che "i dimostranti verranno denunciati, anche alla luce del nuovo dl Sicurezza in materia di blocchi stradali": quello che punisce chi manifesta su strade o ferrovie con la galera fino a un mese se è da solo e fino a 2 anni se gli organizzatori sono più persone. Come i 10 mila operai di Bologna, che ora vanno identificati e indagati uno a uno, poi avvisati della fine-indagini per poter chiedere di essere interrogati e citare testimoni, poi convocati per l'udienza preliminare (in un palasport o in uno stadio, capaci di contenere 10 mila imputati e i loro difensori), e così per i processi di primo, secondo e terzo grado, che si concluderanno – in caso di condanna – con qualche giorno o mese di carcere a testa, ovviamente finto: fino a 2 anni c'è la condizionale e comunque le pene fino a 4 anni si espiano ai domiciliari o ai servizi sociali. E, almeno per chi non ha fatto nulla di male, è meglio così: sennò basterebbe un solo processo a mandare in tilt le carceri già affollate, aggiungendo 10 mila detenuti agli attuali 62.500. Senza contare tutti gli altri sit-in su strada o ferrovia con migliaia di persone, che potrebbero raddoppiare o decuplicare la popolazione carceraria. Immaginate poi quanti poliziotti, cancellieri, impiegati, pm e giudici dovranno occuparsi di questi processi inutili, rubando tempo, uomini e fondi a una Giustizia già ridotta a macchina trita-acqua che non riesce più a perseguire le condotte pericolose.
Però non tutto il male viene per nuocere: se il governo è così ossessionato da chi protesta e dissente, vuol dire che ne ha paura. Quindi protestare e dissentire è tutt'altro che inutile, come ogni giorno confermano i signorini grandi firme: asserviti alle lobby delle armi e delle grandi opere (le hanno come editori e ne sono stipendiati), passano il tempo a magnificare il riarmo e il cemento e a dissuadere chi lo contesta: "Non è riformista", è "estremista", "massimalista", "contiano", "antisemita" senza neppure il diritto di dirsi pacifista o ambientalista. Se protesti è perché "stai con Putin, Hamas e gli ayatollah", "vuoi metterti in mostra", "dividere le opposizioni" e "fare un regalo alla Meloni". Che, com'è noto, è terrorizzata da una sola cosa: dal trio Pd-Iv-Azione, che sul riarmo è un po' più guerrafondaio di lei.
Partiti e società civile insieme: "Fermiamo Israele e le bombe"
di Tommaso Rodano
AVVENIRE DOMENICA 22 GIUGNO 2025
PRIMA PAGINA EDITORIALE DI STEFANO ZAMAGNI
ORGANIZZARE SUBITO LA PACE - A cosa serve un Ministero
Martedì a Roma il convegno dedicato all'istituzione del Ministero della Pace, organizzato da Papa Giovanni XXIII, Azione Cattolica e Acli con 15 enti della società civile
Ben altri e di gran lunga più efficaci sono gli strumenti che – come dirò – si possono usare per la bisogna. Ebbene, il Ministero per la Pace svetta tra questi. In una recente dichiarazione, l'arcivescovo emerito di Seattle Raymond Hunthausen ha affermato: «Le armi nucleari proteggono i privilegi e lo sfruttamento. Rinunciare a esse significherebbe abbandonare il nostro [dell'Occidente] potere economico sugli altri popoli. Pace e giustizia procedono assieme. Sulla strada che seguiamo attualmente, la nostra politica economica verso altri paesi ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo». Non penso vi sia bisogno di commento alcuno, tanto chiare e coraggiose sono queste parole che ci obbligano a riflettere su una cruda novità di questa epoca: la privatizzazione della guerra.
Quali i compiti specifici che un Ministero della Pace – che non escluderebbe, si badi, il Ministero della Difesa – sarebbe in grado di assolvere? Ne indico solamente tre, per ragioni di spazio. Primo, portare al centro dell'indirizzo politico-governativo e del dibattito parlamentare la questione della pace in modo non episodico come oggi avviene, ma in modo organico e permanente. Non bastano, infatti, le politiche per la pace; sono necessarie soprattutto le politiche di pace. Inoltre, un Ministero della Pace – pur senza portafoglio – potrebbe coordinare le deleghe e i progetti oggi frazionati tra tanti ministeri in aree quali la cooperazione internazionale, il dialogo multilaterale, la promozione dei diritti umani. Solo così si potrà essere efficaci quando ci si siede ai tanti tavoli internazionali. Fare il bene è bene, ma volere fare il bene è meglio – quanto a dire che il bene va fatto bene!
Un secondo compito è quello di diffondere ad ampie mani la cultura della pace e di preparare progetti specifici di educazione alla pace. Per quale ragione in Italia si continua a insegnare e far studiare ai frequentanti di vari ordini di scuola testi che parlano in prevalenza di guerre e pochissimo di pace? Oggi sappiamo, perché ce lo confermano le neuroscienze, che un tale martellamento modifica in profondità le mappe cognitive dei giovani, riducendone le disposizioni ai comportamenti virtuosi. Vi sono nel nostro paese 40.321 scuole. Solamente in poco più di 700 si realizzano attività mirate a educare alla pace, grazie alla saggezza e alla generosità di insegnanti che hanno finalmente compreso che compito della scuola è, in primis, educare e in secundis istruire. Discorso analogo vale per l'Università.
Nel 2020 è nata, per iniziativa della Conferenza dei Rettori, la Rete delle Università italiane per la Pace, cui aderiscono 73 Università. A tutt'oggi, un solo dottorato di ricerca in Peace Studies è stato attivato! (Osservo, con piacere, che tra i soggetti organizzatori dell'evento del prossimo 24 giugno c'è l'Università di Padova).
Un ulteriore compito di straordinaria rilevanza per un Ministero della Pace è quello di fungere da supporto alla mediazione di pace e alla "diplomazia ibrida", cioè all'azione sinergica tra istituzioni pubbliche e organizzazioni della società civile. È questa carenza di supporto a non consentire al nostro paese di valorizzare tutto il suo potenziale – che è tanto – per il peacebuilding. Si consideri che l'Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo non ha un'unità specificamente dedicata al peacebuilding, il che spiega, in parte, perché ancora subottimale sia il numero degli enti di Terzo Settore che si occupano di mediazione di pace.
La pace non è un obiettivo irraggiungibile, perché la guerra non è un dato di natura – come ancora una nutrita schiera di intellettuali ritiene vero, pur non avendo il coraggio di dichiararlo pubblicamente. Piuttosto, la guerra è un frutto marcio di tutti coloro che la vogliono, per specularci sopra. Nel suo celebre saggio del 2000, Norberto Bobbio ha scritto che «qualche volta è accaduto che un granello di sabbia, sollevato dal vento, abbia fermato una macchina». È proprio così: un Ministero della Pace sarebbe, nelle presenti condizioni, un tale granello che il vento dell'iniziativa del 24 giugno andrà a sollevare molto in alto.
